Il giallo di Ugento. L'assassinio di un uomo scomodo, Giuseppe Basile

De Matteis Lino
Dello stesso autore
Editore/Produttore: GLOCAL EDITRICE
EAN: 9788890154850



pp.224 brossura

Sconvolto dall’omicidio di un suo uomo politico, un piccolo centro del Mezzogiorno ha perduto la pace, vive nel terrore delle intimidazioni e degli attentati, con il parroco minacciato di morte per aver sfidato l’omertà. Solo la verità sull’assassinio potrà ridare serenità ad una comunità sprofondata nell’angoscia della paura e dei sospetti. L’incertezza delle indagini, che, dopo un anno, ancora non hanno imboccato una strada precisa, accresce il senso di afflizione e di impotenza dei cittadini, che si sentono in balia del “Sistema”, di quel potere criminale occulto che, indipendentemente dal movente dell’omicidio, ha mostrato di voler controllare il territorio, imporre la propria volontà e imbavagliare chi chiede giustizia e verità. «In Sicilia si chiama Mafia, in Campania si chiama Camorra, qua non c’è più la Sacra corona unità, c’è il Sistema», diceva Peppino Basile, consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei valori, prima di essere massacrato a coltellate una notte del giugno 2008 a Ugento, nel Capo di Leuca.

«Quella notte di metà giugno 2008, Basile non doveva essere ucciso», ipotizza l’autore del libro “Il giallo di Ugento” (Glocal Editrice), il giornalista Lino De Matteis. «Forse, doveva solo essere intimorito, magari con una minaccia più determinata e convincente di quelle subite in precedenza, con un crescendo di macabri messaggi da quando era diventato consigliere comunale e provinciale dell’Idv. La sua elezione, infatti, aveva cambiato, e non di poco, la situazione. Fino ad allora Peppino Basile era stato considerato quasi una sorta di “scemo del villaggio”, un cafone semianalfabeta con la mania della politica e della difesa dei poveri e degli oppressi…». Basile – secondo l’autore, dunque – sarebbe rimasto vittima di una intimidazione degenerata in scontro violento e conclusa con il suo assassinio e «il movente potrebbe non risiedere in un fatto specifico, bensì nella capacità di Basile di dare complessivamente fastidio, di intralciare politicamente piani e progetti di affari. Il movente potrebbe risiedere, quindi, nella volontà del Sistema di zittire un oppositore scomodo, che aveva già dimostrato di poter interferire nei suoi propositi di gestione del territorio e che, forse, si apprestava a farlo nuovamente...». Un’ipotesi che spiegherebbe le difficoltà degli inquirenti a trovare un movente specifico e l’anomala modalità del delitto eseguito con decine di coltellate. «Non può certo essere quella – scrive De Matteis – la modalità di uccidere qualcuno con premeditazione. Chi ha l’intenzione di compiere un omicidio lo farebbe nel modo più sbrigativo e veloce possibile. Chi deve eseguire una condanna a morte userebbe, magari, una pistola, un colpo secco e via...». Un'ipotesi che troverebbe fondamento anche nel clima di paura, minacce, intimidazioni violente che ad Ugento si sono manifestate prima e dopo il suo omicidio, con le minacce di morte al parroco don Stefano Rocco, anche lui colpevole solo di non voler stare zitto e di non smettere di chiedere la verità.

«Non credo alla pista passionale. Ci sono pochi dubbi sulla sua matrice politico-criminale», scrive il sociologo ed esperto internazionale di lotta alla criminalità Pino Arlacchi nella prefazione al libro di Lino De Matteis. «Gli inquirenti – continua Arlacchi– avrebbero dovuto percorrere sin dall’inizio e con grande determinazione questa strada, e non l’hanno percorsa. Mi occupo di criminalità da trent’anni. Ho collaborato con il pool antimafia di Palermo, ho collaborato con Chinnici, Falcone, Borsellino, Caponnetto, e tanti altri investigatori capaci. Ho continuato ad occuparmene per il resto della mia vita, e ho troppo spesso assistito, sia in Calabria che in Sicilia, alla parabola delle indagini sui delitti di mafia che iniziano dalla traccia sbagliata, quella della vita privata della vittima, e terminano, quando terminano, con la scoperta della matrice politico-mafiosa del delitto». «Nel caso Basile – sottolinea Arlacchi – ho visto emergere con troppa rapidità l’ipotesi del movente passionale. E mi è subito venuta in mente la prassi mafiosa di uccidere un oppositore e di gettare subito discredito sulla vittima, riducendo la faccenda a storie di corna, gelosie, rivalità e meschinerie locali che non avevano nulla a che fare con l’impegno civile e con l’attività pubblica della stessa. Il tutto allo scopo di depistare le indagini, intimidire i testimoni e far sparire le prove». «Se l’uccisione di Peppino – si chiede ancora Arlacchi – fosse stata un banale delitto passionale, qualcuno può spiegarmi perché, dopo il delitto, c’è stata una reazione così intensa alle denunce del parroco? Perché le minacce alle persone che si sono occupate del caso sono continuate e continuano? Perché la successione di attentati ed intimidazioni che continua ad avvelenare la vita pubblica di Ugento?».

Pino ARLACCHI, sociologo, è una delle massime autorità mondiali sulla criminalità organizzata. Grande amico dei giudici Falcone e Borsellino, è stato presidente della “Fondazione Falcone”, ed è considerato l’architetto della strategia antimafia dell’Italia negli anni ’80 e ’90. Parlamentare per due legislature, ha ricoperto l’incarico di vice-presidente dell’Antimafia ed ha redatto il progetto esecutivo della DIA. Dal 1997 al 2002 Arlacchi è stato vice-segretario generale dell’ONU e direttore del Programma per il controllo delle droghe con sede a Vienna. È ordinario all’Università di Sassari e ha insegnato alla Columbia University di New York.


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pp.224 brossura

Sconvolto dall’omicidio di un suo uomo politico, un piccolo centro del Mezzogiorno ha perduto la pace, vive nel terrore delle intimidazioni e degli attentati, con il parroco minacciato di morte per aver sfidato l’omertà. Solo la verità sull’assassinio potrà ridare serenità ad una comunità sprofondata nell’angoscia della paura e dei sospetti. L’incertezza delle indagini, che, dopo un anno, ancora non hanno imboccato una strada precisa, accresce il senso di afflizione e di impotenza dei cittadini, che si sentono in balia del “Sistema”, di quel potere criminale occulto che, indipendentemente dal movente dell’omicidio, ha mostrato di voler controllare il territorio, imporre la propria volontà e imbavagliare chi chiede giustizia e verità. «In Sicilia si chiama Mafia, in Campania si chiama Camorra, qua non c’è più la Sacra corona unità, c’è il Sistema», diceva Peppino Basile, consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei valori, prima di essere massacrato a coltellate una notte del giugno 2008 a Ugento, nel Capo di Leuca.

«Quella notte di metà giugno 2008, Basile non doveva essere ucciso», ipotizza l’autore del libro “Il giallo di Ugento” (Glocal Editrice), il giornalista Lino De Matteis. «Forse, doveva solo essere intimorito, magari con una minaccia più determinata e convincente di quelle subite in precedenza, con un crescendo di macabri messaggi da quando era diventato consigliere comunale e provinciale dell’Idv. La sua elezione, infatti, aveva cambiato, e non di poco, la situazione. Fino ad allora Peppino Basile era stato considerato quasi una sorta di “scemo del villaggio”, un cafone semianalfabeta con la mania della politica e della difesa dei poveri e degli oppressi…». Basile – secondo l’autore, dunque – sarebbe rimasto vittima di una intimidazione degenerata in scontro violento e conclusa con il suo assassinio e «il movente potrebbe non risiedere in un fatto specifico, bensì nella capacità di Basile di dare complessivamente fastidio, di intralciare politicamente piani e progetti di affari. Il movente potrebbe risiedere, quindi, nella volontà del Sistema di zittire un oppositore scomodo, che aveva già dimostrato di poter interferire nei suoi propositi di gestione del territorio e che, forse, si apprestava a farlo nuovamente...». Un’ipotesi che spiegherebbe le difficoltà degli inquirenti a trovare un movente specifico e l’anomala modalità del delitto eseguito con decine di coltellate. «Non può certo essere quella – scrive De Matteis – la modalità di uccidere qualcuno con premeditazione. Chi ha l’intenzione di compiere un omicidio lo farebbe nel modo più sbrigativo e veloce possibile. Chi deve eseguire una condanna a morte userebbe, magari, una pistola, un colpo secco e via...». Un'ipotesi che troverebbe fondamento anche nel clima di paura, minacce, intimidazioni violente che ad Ugento si sono manifestate prima e dopo il suo omicidio, con le minacce di morte al parroco don Stefano Rocco, anche lui colpevole solo di non voler stare zitto e di non smettere di chiedere la verità.

«Non credo alla pista passionale. Ci sono pochi dubbi sulla sua matrice politico-criminale», scrive il sociologo ed esperto internazionale di lotta alla criminalità Pino Arlacchi nella prefazione al libro di Lino De Matteis. «Gli inquirenti – continua Arlacchi– avrebbero dovuto percorrere sin dall’inizio e con grande determinazione questa strada, e non l’hanno percorsa. Mi occupo di criminalità da trent’anni. Ho collaborato con il pool antimafia di Palermo, ho collaborato con Chinnici, Falcone, Borsellino, Caponnetto, e tanti altri investigatori capaci. Ho continuato ad occuparmene per il resto della mia vita, e ho troppo spesso assistito, sia in Calabria che in Sicilia, alla parabola delle indagini sui delitti di mafia che iniziano dalla traccia sbagliata, quella della vita privata della vittima, e terminano, quando terminano, con la scoperta della matrice politico-mafiosa del delitto». «Nel caso Basile – sottolinea Arlacchi – ho visto emergere con troppa rapidità l’ipotesi del movente passionale. E mi è subito venuta in mente la prassi mafiosa di uccidere un oppositore e di gettare subito discredito sulla vittima, riducendo la faccenda a storie di corna, gelosie, rivalità e meschinerie locali che non avevano nulla a che fare con l’impegno civile e con l’attività pubblica della stessa. Il tutto allo scopo di depistare le indagini, intimidire i testimoni e far sparire le prove». «Se l’uccisione di Peppino – si chiede ancora Arlacchi – fosse stata un banale delitto passionale, qualcuno può spiegarmi perché, dopo il delitto, c’è stata una reazione così intensa alle denunce del parroco? Perché le minacce alle persone che si sono occupate del caso sono continuate e continuano? Perché la successione di attentati ed intimidazioni che continua ad avvelenare la vita pubblica di Ugento?».

Pino ARLACCHI, sociologo, è una delle massime autorità mondiali sulla criminalità organizzata. Grande amico dei giudici Falcone e Borsellino, è stato presidente della “Fondazione Falcone”, ed è considerato l’architetto della strategia antimafia dell’Italia negli anni ’80 e ’90. Parlamentare per due legislature, ha ricoperto l’incarico di vice-presidente dell’Antimafia ed ha redatto il progetto esecutivo della DIA. Dal 1997 al 2002 Arlacchi è stato vice-segretario generale dell’ONU e direttore del Programma per il controllo delle droghe con sede a Vienna. È ordinario all’Università di Sassari e ha insegnato alla Columbia University di New York.

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DatiDescrizione
EAN9788890154850
AutoreDe Matteis Lino
EditoreGLOCAL EDITRICE
Data pubblicazione2009/06
CategoriaSaggistica
Pagine224
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