pp.198, brossura
C’è la storia di Ciro Annicchiarico, il prete brigante di Grottaglie fucilato sulla pubblica piazza, a Francavilla Fontana, nel febbraio 1818; c’è la “bellissima istoria” delle prodezze di Angelo Del Duca capobrigante salernitano specializzato in ruberie perpetrate solo a danno dei ricchi (per poi donare il bottino ai poveri); c’è la “crudelissima istoria” di Carlo Rainone, nolano, che di prodezze ne esibiva altre: un curriculum di 167 omicidi.
C’è tutto e di più, su banditi, briganti e fuoriusciti dell’Italia post-unitaria nel libro “Ascoltate, signore e signori” pubblicato da Capone, un autentico gioiellino della letteratura post-risorgimentale affidato dall’editore alle sapienti cure di Raffaele Nigro.
Lo scrittore lucano, Premio Campiello con “I fuochi del Basento”, conquistato nel 1987 (anno di svolta nella produzione di Nigro), si è molto divertito, lo si percepisce, nel realizzare questo lavoro finalizzato a raccontare sì le gesta dei briganti ma, per una volta, non dalla parte degli storici o in presa diretta (un’autobiografia, come quella di Carmine Crocco) bensì dalla parte del popolo e, più precisamente, dei cantastorie o cantacronache, i giornalisti dell’epoca che al popolo sapevano parlare.
Nessuno oggi li ricorda più se non in Sicilia dove artisti come Franco Trincale (tra l’altro presidente dell’associazione Il Mondo dei Cantastorie) hanno provveduto a tener desta una tradizione che Nigro configura ormai più come un “prodotto letterario” che un “documento storico”.
Il cantastorie, erede dei trovatori del Medioevo, era colui che girava di piazza in piazza raccontando indifferentemente o storie antiche o fatti recenti, perlopiù tragici, aiutandosi con telone che srotolava sulla piazza affollata oppure con una cartellonistica su cui era raffigurato lo svolgersi degli eventi; il tutto sottolineato dal suono di uno strumento a corde. A metà degli anni Cinquanta, sostengono gli esperti, la figura del cantastorie soccombe sotto il peso dell’avvento della televisione e dei suoi notiziari che portano il mondo in casa.
Viene così restituita al vero valore letterario l’opera del cantastorie: del resto, al termine della rappresentazione, il girovago cantore della vita quotidiana passava tra i suoi ascoltatori con il cappello teso o con un piattino per raccogliere, al buon cuore degli astanti, un piccolo obolo (quasi un progenitore del canone televisivo) ma nello stesso tempo si industriava per vendere il libro a stampa dei versi appena recitati o una serie di fogliettini con lo stesso contenuto.
Perché di versi si trattava: quartine ed ottave di endecasillabi che Raffele Nigro ha ripescato privilegiando per il libro (la cui prefazione è firmata da Valentino Romano) cinque ballate sulle tante; non personali preferenze ma il lavoro di un ricercatore appassionato e padrone della materia come quando, nel caso della “Istoria della vita e morte di Pietro Mancino, capo dei banditi” (nato sul Gargano, capitano di ventura al soldo prima dei Francesi e poi dello Stato pontificio ma comunque in cuor suo brigante), collaziona più fonti, ovvero due note raccolte, una italiana e l’altra straniera, per cercare somiglianze e differenze.
Raffaele Nigro ha un padre reale (che spegnendosi ai piedi di un albero, in campagna, regalò poesia a chi restava) ed alcuni padri putativi; uno è stato il grande storico Tommaso Pedio, suo professore; un altro Ernesto De Martino, punto di riferimento per le ricerche; un altro lo storico della letteratura Carlo Dionisotti: in tre gli furono d’esempio sul significato da dare alla parole uomo, terra, radici. Lo ha mandato a memoria e ne fa buon uso anche in questo bel libro.